30 ore a Kabul
Atterriamo a Kabul nel cuore della notte ed è subito chiaro che la situazione è grave.
Il Generale Faraglia e i suoi uomini sono stanchi. Gli occhi rossi. Non dormono una notte intera da quindici giorni.
Quando arrivo sono occupati a dividersi il lavoro e le ore di riposo nella stanza dove è stato allestito il Comando. Una piccola sala riunioni in una costruzione a lato della pista. Sul tavolo una ciabatta per caricare i cellulari, un computer portatile e una stampante. Il minimo indispensabile per dirigere l'operazione.
Appoggiati alle pareti fucili, giubbotti antiproiettile, elmetti, acqua e razioni K.
Nonostante siano le due del mattino l'aeroporto è in piena attività. Sulla pista rombano gli aerei cargo militari di diverse nazioni. Non spengono mai i motori. Atterrano e subito imbarcano i passeggeri. Lunghe file di afghani aspettano pazienti. Uomini. Donne. bambini. Tutti senza bagaglio. Un sacchetto con poche cose al massimo. Tutto lo spazio va usato per le persone. Non c'è posto per nient'altro.
Gli hangar dell'aeroporto sono pieni di persone. Migliaia. Famiglie intere dormono stremate sulle coperte militari. Chi è sveglio ha occhi stanchi. Il volto senza espressione. Non c'è rabbia, non c'è lamento, non c'è un sorriso.
Parlo con un giovane uomo, mi fa vedere sua moglie e un bambino di 3/4 anni che dormono per terra. Lui resta sveglio. Li guarda, e sta attento a quello che succede intorno.
L'alba che sta per arrivare porta l'ultimo giorno di questo enorme evacuazione. Domani ci sarà solo un volo per Roma. L'ultimo. Quello con a bordo il Console Claudi, l'ambasciatore Nato Stefano Pontecorvo e tutti i militari che hanno svolto l'operazione Aquila.
Un centinaio di persone che con cinque aerei sono riusciti in quindici giorni a portarne in salvo circa cinquemila.
Gli Afghani in attesa nell'hangar sanno che oggi sarà l'ultimo giorno. Chi non parte oggi, non parte più. Tantissimi hanno ancora qualcuno di la, oltre il fossato, fuori da Abbey Gate. E allora, telefonate, messaggi. Tutti chini sui telefoni cellulari. Il volto teso.
Entrare nell'aeroporto è quasi impossibile ormai.
Fuori dalle mura però, spingono ancora migliaia di persone.
Il perimetro dell'aeroporto è percorso da un canale di scolo profondo circa quattro metri.
È pieno d'acqua e una volta entrati non si riesce ad uscirne da soli. Per questo motivo i militari la usano come filtro, per individuare, identificare e trarre in salvo le persone.
La procedura è questa.
Una volta stabilito il contatto, la persona che deve entrare e l'agente che si trova all'interno dell'aeroporto stabiliscono un orario di incontro e dei segnali.
Ad esempio: porta un telo di colore rosso e scrivi sul palmo della mano la lettera W.
Presentati ad Abbey Gate e cerca di farti vedere. Io sarò vestito così e così e anche io avrò una W scritta sulla mano.
Dopodiché l'agente e il rifugiato tentano di riconoscersi e incontrarsi nella bolgia infernale che si crea davanti al canale. Se ce la fanno, l'afghano si tuffa nel canale e l'agente lo tira su.
Un lavoro estenuante per l'agente. Una missione quasi impossibile per l'afghano, stretto nella calca per ore, sotto il sole estivo di Kabul per ore e ore. Giorni anche.
Sono stato ad Abbey Gate verso mezzogiorno.
Si trova nel lato est dell'aeroporto e in quel momento era interamente gestito da Marines americani. Facce giovani, ragazzoni atletici, qualche ragazza. Ne ricordo uno alto due metri e uno per il nome insolito scritto sulla divisa. Soviak.
Passo il cancello e resto solo pochi istanti a vedere la scena.
La folla di afghani spinge disperata il muro di cemento armato del canale. Un Marine sale sul muro e urla con tutto il fiato "Get back! Get the fuck back!" In mano brandisce quello che credo fosse un fumogeno, spento, nella speranza di intimorirli e farli arretrare. Il tempo di assistere alla scena e poi due marine mi prendono e mi costringono a uscire. Resto ancora qualche minuto dal cancello e osservo la scena.
In lontananza si vedono uomini col turbante nero. Sono talebani. Osservano la situazione.
Un marine cammina verso di me. Ha in braccio un bambino di 6 mesi circa. Non ricordo se il bimbo stesse piangendo, ma piangeva il soldato. "The mother just gave the baby away! She gave it to me!" La madre mi ha dato il bambino!"
Subito mi si sono gonfiati di lacrime gli occhi. Mi giro verso il militare italiano che mi stava accompagnando. Un soldato dei reparti scelti. Un commando. Una testa di cuoio che da trent'anni vive e lavora in guerra. Un duro insomma. Piange anche lui. E mi dice: "Non ne possiamo più di questa scena. I nostri ragazzi non ne possono più. Succede di continuo. Quasi tutti abbiamo figli. È insopportabile."
Abbandonare il proprio figlio nelle mani di uno sconosciuto. Per farlo vuol dire che hai la certezza che domani morirai. E lui con te. Non esiste altro al mondo che ti possa spingere a tanto.
Vado via frastornato. Commosso. Disorientato. Non parlo. Mi guardo intorno. Scatto fotografie. Ma ho ingerito qualcosa che non sono ancora riuscito adesso, mentre scrivo, a metabolizzare.
L'attacco suicida ha colpito questo posto. Questa scena, solo poche ore dopo. Tre credo. Esattamente in quel punto. Dove madri disperate abbandonavano i figli tra le braccia dei soldati. Dove militari valorosi lottavano per trarre in salvo quelli che potevano.
Atrocità. Barbarie. Orrore. Non so, scegliete voi il termine. Io non lo trovo.
Il colpo lo abbiamo sentito, ma colpi se ne erano sentiti tutto il giorno. Il crepitio di un mitra, il tonfo di un'esplosione. Chissà dicevamo. Forse gli americani che fanno saltare i mezzi che abbandoneranno qui.
La notizia dell'attentato è arrivata per gradi. Prima una voce. Poi il video di una macchina che trasporta dei feriti. Tre marines. No, di più. Dieci. Poi si comincia a parlare di morti. Infine un messaggio dall'altoparlante: "Abbiamo bisogno di donatori di sangue. Se ci sono dei volontari si rechino in infermeria."
Alcune ore dopo l'attacco un altro allarme risuona nella base: "Ground attack. Go to shelter. Ground attack. Go to shelter.".
Non ho idea di cosa si sia trattato, ma dopo circa un'ora è rientrato.
Da quel momento però l'atmosfera nella base è cambiata. Tutti i militari che già non lo indossavano si sono protetti con giubbotto e elmetto. I reparti speciali hanno impacchettato rapidamente le loro cose, pronti a partire, ed hanno creato un perimetro di sicurezza.
Ormai era buio. Nel cielo hanno iniziato a sentire il rombo metallico degli elicotteri apache, che volavano minacciosi, a luci spente. Dalle otto di sera circa all'una di notte.
In lontananza ogni tanto si sentiva un'esplosione. Alto nel cielo ogni tanto ho visto dei raggi verdi. Puntatori laser mi dicono. Non so dire se fossero aerei o droni.
Verso l'una tutto è cessato. Ci siamo accampati insieme ai militari e abbiamo riposato qualche ora.
Al mattino presto il console Tommaso Claudi, quello reso famoso dalla fotografia pubblicata su instagram, giovane, distino, anche lui con la faccia stanca, la camicia stropicciata, ma comunque in ordine, come si addice a un diplomatico, viene a comunicarci che il nostro volo sta arrivando. Di prepararci subito e aspettare che ci vengano a prendere.
Quando le ruote dell'aereo si sono staccate dalla pista dell'aeroporto di Kabul, un sorriso che non dimenticherò ha invaso il volto di una ragazza, giovane, con il velo colorato, rosa.
Qualcuno per il sollievo piangeva. Qualcuno si è addormentato. Qualcuno parlava con chi era seduto vicino a lui sul pavimento del C130 che rombava potente e sicuro verso il Pakistan.
Durante il volo Monica, la giornalista in viaggio con con me, mi fa notare una cosa. "Guarda, mi dice, gli uomini tutti seduti per terra. Le donne invece sedute più comode, sulle panche." Immagine importante e simbolica.
Le scorro con lo sguardo, una per una, cercando quella più adatta da fotografare. Mi fermo su una signora, di etnia hazara. Ha un velo verde, col quale protegge un bambino che avrà forse un'anno. Piangeva. Il volo è durato sei ore. E lei per tutto il tempo ha pianto.
Ieri, rientrato a casa, ho trovato sul giornale i nomi dei marines morti nell'attentato. Tra di loro di nuovo uno ha catturato la mia attenzione perché insolito. E, con dolore, mi sono ricordato di averlo già letto prima. Soviak.